I nostri tempi sono segnati, tra le altre cose, dall’attenzione molto spiccata per i temi economici. Perfino un’istituzione bimillenaria come la Chiesa cattolica, ultimamente in maniera rilevante, come già nel corso della sua storia, si interessa dell’economia non solo per svolgere la sua missione, ma anche per riflettere sulle implicazioni morali che ne conseguono. D’altronde, i teologi nei secoli passati sono stati coinvolti per rispondere a quesiti concreti sul senso di giustizia, sulla proprietà, sul prestito di denaro e sul pagamento delle tasse, nonché sulle opere di beneficenza. Dall’enciclica Rerum novarum (15 maggio 1891) di papa Leone XIII in poi, tramite la dottrina sociale la Chiesa si è confrontata con sfide importanti: dalla rivoluzione industriale alla questione operaia, dal capitalismo al socialismo, dalla globalizzazione economica alle periodiche crisi finanziarie, dall’economia civile a quella cosiddetta green.
Il rapporto con l’economia e, più concretamente, con quello strumento chiamato “denaro”, ha creato non pochi problemi. Infatti, dimenticando l’adagio pecuniae imperare oportet, non servire, si finisce con il rendere lo strumento il vero padrone della vita. Perciò avverte il versetto 10 del capitolo sesto nella Prima Lettera a Timoteo: «Radix enim omnium malorum est cupiditas». La cupiditas corrisponde qui a un esplicito vocabolo greco: philargyría, l’“amore” per il denaro. Lungi dall’essere una semplice e banale raccomandazione moraleggiante, l’insegnamento biblico addita un obiettivo imprescindibile per le migliori intelligenze e agli spiriti più fini del mondo antico: il “distacco” da quanto ostacola il raggiungimento della perfezione nella vita: «Quando dunque abbiamo di che mangiare e di che coprirci, accontentiamoci. Quelli invece che vogliono arricchirsi, cadono nella tentazione, nell’inganno di molti desideri insensati e dannosi, che fanno affogare gli uomini nella rovina e nella perdizione. L’avidità del denaro infatti è la radice di tutti i mali; presi da questo desiderio, alcuni hanno deviato dalla fede e si sono procurati molti tormenti» (1Tm 6,8-10).
Mi piace accostare tali parole alla riflessione di Seneca nella seconda lettera a Lucilio (5-6). Il filosofo cordovense riporta una massima di Epicuro letta in quella giornata: honesta res est laeta paupertas. Poi aggiunge: «Ma se è bene accolta, non è più povertà. È povero non chi possiede poco, ma chi brama avere di più (Non qui parum habet, sed qui plus cupit, pauper est). Che conta quanto uno abbia nella cassaforte o nei franai, quanti armenti abbia al pascolo o quanto gli rendano i crediti, se pensa sempre alla ricchezza altrui e fa calcoli, non su quello che possiede, ma su quello che vorrebbe acquistare? Mi chiedi quale sia il giusto limite della ricchezza. Avere anzitutto l’indispensabile, poi ciò che basta (Quis sit divitiarum modus quaeris? Primus habere quod necesse est, proximus quod sat est)». È il principio ben noto dell’autárkeia, il “bastare a sé stessi” accontentandosi di quanto si ha, del necessario, sicché ci si tiene lontano dalle cose che turbano l’animo e fanno perdere la serenità (si veda Fil 4,11-13).
Alla luce di queste non esaustive considerazioni, mi permetto di segnalare una mia recente ricerca in cui, trattando il tema Gesù e l’economia, ho voluto riprendere brevemente i capisaldi del pensiero antico sull’economia. Sappiamo che Antistene, Senofonte e, soprattutto, Aristotele hanno dedicato spazio a quest’argomento.
In particolare quest’ultimo scrive, nel primo libro della Politica, che l’economia è una via per la realizzazione della felicità dell’individuo. Perciò, egli distingue tra la crematistica (amministrazione del patrimonio) “naturale”, volta a procurare il necessario per vivere e fondata sull’idea della “disponibilità limitata dei beni”, da una “innaturale”, che richiede esperienza e abilità e non si pone alcun limite nel procurarsi ricchezze. Per lo Stagirita, la crematistica naturale è preferibile a quella innaturale, definita secoli dopo da Tommaso d’Aquino concupiscentia infinita. La limitatezza dei beni era opinione comune a gran parte dell’umanità di quell’epoca, perché si viveva quasi esclusivamente di agricoltura, tra l’altra praticata con mezzi arretrati. D’altronde, quel tipo di società era “preindustriale” e “ruralizzata”, differente dalla nostra, “industriale” e “urbanizzata”. Ciò si riscontra anche nel contesto biblico, dove va precisato che perfino l’uso del denaro non era simile al nostro: per noi il denaro va scambiato a fronte di merci, servizi e altro; per gli antichi esso fungeva da bene-deposito, da sistema di controllo sociale sugli esterni alla famiglia aristocratica (salariati, dipendenti) e politico per lo stato attraverso la tassazione. Ciò era tanto evidente per l’economia palestinese all’epoca di Gesù: la gente comune lavorava la terra per procurarsi di che vivere e pagare le tasse, l’aristocrazia si godeva il lusso, spremendo i ceti bassi, il commercio internazionale aveva volumi ridotti, perché si concentrava su beni di lusso acquistabili da pochi.
Altro elemento per comprendere il mondo economico in cui era inserito Gesù risiede nella reciprocità e nel patronato e clientela. La reciprocità è una transazione economica governata dalla distanza sociale e dalla tempestività del contraccambio: minore è la distanza sociale (per esempio, quella tra genitori e figli), maggiore può essere la tempestività del contraccambio. Perciò, abbiamo tre tipi di reciprocità: generalizzata, in cui l’obbligo del contraccambio potrebbe non verificarsi mai, diventando “dono”; equilibrata, in cui il contraccambio dev’esserci per mantenere buoni rapporti di amicizia e anche proficue relazioni commerciali; negativa, quando si cerca di ricavare il massimo profitto dal contraccambio. La reciprocità equilibrata è stata rielaborata da studiosi del mondo antico per adattarla alla situazione del I secolo d.C. in simmetrica, in cui lo scambio riguarda beni di uguale valore tra persone di pari status, e asimmetrica, che configura il rapporto patrono-cliente, che gli antichi romani diffusero e di cui abbiamo ampie tracce nel Nuovo Testamento (cf. per esempio Lc 7,1-10 e 19,11-27). In tale contesto, perfino i rapporti tra Dio e l’umanità possono essere riletti in questa chiave: Dio è il patrono, Gesù è l’intermediario, il popolo è composto da clienti. Nelle comunità cristiane delle origini esistevano addirittura delle donne fungenti da patrone: è il caso di Lidia in At 16 e delle donne che seguivano Gesù in Lc 8,1-3. Per lui, tra coloro che appartengono alle comunità ispirate al suo insegnamento deve prevalere la reciprocità generalizzata, a imitazione del suo agire a vantaggio degli uomini.
Non meno importante è la discussione su chi siano i poveri e i ricchi nel Nuovo Testamento, facendo ricorso a un esame storico-critico e attraverso l’ausilio delle scienze sociali applicate ad alcuni testi. Come abbiamo visto nelle battute iniziali di quest’articolo, chi aveva anche solo il minimo per sopravvivere non era considerato povero; il ricco era soprattutto chi non aveva bisogno di lavorare per vivere, quindi un aristocratico, padrone di latifondi, e poteva riscattare la sua reputazione facendosi onore con la magnanimità e la generosità. Da tale punto di vista, allora, è interessante osservare come la rilettura di parabole, ampiamente conosciute e interpretate solo in chiave teologica, apra altri orizzonti di significato considerando le condizioni economiche del tempo.
Nella corposa conclusione del volume ho precisato il concetto di “economia morale” di un uomo del I secolo d.C., con la quale un ascoltatore di Gesù giudicava le situazioni e le persone del suo tempo. Se ne ricava che, anche alla luce della recente produzione sulle teorie economiche, occorre ristabilire l’importanza del rapporto tra economia, felicità e beni relazionali (amicizia, affetti, cultura…) e recuperare gli aspetti “spirituali”, il rapporto tra economia e morale, la centralità dell’iniziativa personale, la dottrina sociale della Chiesa, per creare le premesse di un’economia del Regno [1].
Il distacco dai beni di questo mondo non può esimerci dall’esserne amministratori oculati, affinché non la pecunia, bensì la felicità di tutti sia la vera regina mundi.
[1] Per approfondimenti: G. Di Palma, Gesù e l’economia, Sardini Editrice, Bornato in Franciacorta (Brescia) 2024.